Morte: evento naturale e parte stessa dell’esistenza

Morire sì ma non essere aggrediti dalla morte, scrive il poeta Cardarelli (1).
Già, perché la morte non è un evento eccezionale o anomalo come la società di oggi spesso ci vuole far credere. La morte è una cosa NATURALE. Indipendentemente da ciò che l’ha causata, essa è l’altro capo della nascita e ci accompagna da quando veniamo al mondo. Tutti nasciamo e tutti, un giorno, siamo destinati a morire.
Non è il parlarne a provocarla o il silenzio a tenerla lontana.
La morte non dovrebbe essere vissuta con disperazione/impotenza/ingiustizia, come ‘sfortuna’ che si subisce. Tutto questo accade quando «la morte viene vissuta come deficit e non come evento naturale, come danno causato dalla disfunzione dell’esistenza e non come conclusione logica di un episodio, che è la vita» (2).
E’ inutile quindi nasconderci dietro l’illusione di essere immortali.
Ognuno di noi ha una data di scadenza -diceva la mia formatrice di tanatologia (3)- però non la vediamo. Probabilmente è posizionata proprio in quel punto del corpo in cui, per quante capriole possiamo fare, non riusciremo a leggerla.
Cerchiamo di non avere paura perché Morire significa Essere esistiti/Aver fatto/Aver sbagliato/Essersi emozionati/Aver sofferto.
Che senso ha quindi fingere di allontanare la morte e il morire se tanto prima o poi dovremo affrontarli?
O decidere di non parlarne per scaramanzia, finto buon gusto o timore?
O, ancora, allontanare chi sta per morire se poi parte di noi è in chi se ne sta andando?

 

La morte fa parte dell’esistenza

Quando ci è possibile, PROVIAMO a stare vicini alle persone che stanno morendo e cerchiamo di farlo con naturalezza, accettando che è un ciclo che si sta completando. Anche se a causare la morte è una malattia, un cancro o un brutto incidente.
E’ difficile e umano avere paura, sentirsi impotenti, soffrire. Ma è fondamentale farci sentire presenti e vicini dai nostri cari, fino a che ci è possibile.
La malattia e la morte dell’altro ci ricordano che siamo esseri umani non immortali e che le persone a noi care non lo sono altrettanto.
ESSERE PRESENTI significa nutrire, accudire, stare assieme, guardarsi in viso, far sentire ancora l’altro parte della comunità umana. Significa inoltre dare dignità alla persona, dando importanza a lei, a suoi sentimenti e al suo “desiderio di vivere” fino alla fine.

«Mio nonno è morto in casa.
Lo abbiamo trasferito in ospedale quando ormai era praticamente in coma. E’ stato doloroso vederlo spegnersi sempre di più fino a che non si è fatto assente. Quando accade ti aggrappi ad ogni cosa pur di vederlo ancora aprire gli occhi, rispondere al tuo sguardo, sorriderti. In ospedale hanno ritenuto giusto metterlo in terapia intensiva, spogliarlo letteralmente di tutto, fargli una tracheotomia per aiutarlo a respirare. Non sono mai riuscita ad entrare in quella stanza dove solo con camice, cuffietta e copriscarpe potevi entrare; in quella stanza dove un corpo ormai in coma giaceva privato di ogni protezione. Solo mio padre poteva entrare, in orari precisi e senza troppe speranze. Alla fine anche il corpo, in pochissimi giorni, si è spento.
Mio nonno è praticamente morto in casa.
Sono felice di aver avuto la forza e il desiderio di stargli accanto finché ho potuto. Non dico che non ho rimpianti -assurdo dirlo, quando qualcuno di caro se ne va, qualche rimpianto viene fuori. Ma io mi sono goduta mio nonno fino alla fine e lui si è goduto me finché gli è stato possibile. Ringrazio i miei genitori per avermi spinta a fare questo e per avermi insegnato ad amare l’esistenza in tutta la sua complessità … sia quando si ride, scherza, gioisce, stupisce, si è insieme sia quando si piange, si soffre, si perde qualcuno».

Cosa possiamo provare a fare

Non è semplice riuscire a vivere accanto alla morte. Il mio intento non è quello di criticare alcuno né di banalizzare il problema ma vuole essere un aiuto alla riflessione! Lo so, a volte non è proprio possibile tenere una persona tanto sofferente all’interno delle mura domestiche.
Ci sono però delle cose che tutti possiamo provare a fare:
prima di tutto, non rinunciamo a PARLARE della morte: discutendone le si dà il giusto spazio all’interno della vita e la giusta dimensione, diventa così ‘meno lontana’ e sconosciuta.
INSEGNIAMO la morte sin da piccoli: perché il pesce rosso muore già quando abbiamo 2 anni e perché parlarne significa apprezzare meglio l’esistenza in tutte le sue sfumature.
impegniamoci nell’INFORMARCI e nell’INFORMARE. Come per ogni cosa, la BUONA INFORMAZIONE è la migliore arma contro la paura (e l’ignoranza)!
CONFRONTIAMOCI: parliamone tra noi, cerchiamo professionisti con cui affrontarla, documentiamoci, leggiamo.
apprezziamo l’ACCOMPAGNARE: a piccoli passi, senza chiedere troppo alle nostre forze; perché «morire è molto più di un evento clinico. Riguarda in primo luogo la relazione» (4)
coltiviamo -dove è possibile- la ORTOTANASIA (2) e l’EUBIOSìA (5). Sono due termini con cui si definisce la morte dignitosa e “buona”, senza l’eccessiva interferenza dalla scienza, limitando il più possibile la sofferenza. Si permette alla malattia di avere il suo corso. La ortotanasia e l’eubiosìa possono fornire al morente e a chi gli sta vicino gli strumenti emotivi utili per arrivare ad accettare i propri limiti (che sono poi la difesa che normalmente attiviamo di fronte a tutte le angosce legate all’ignoto).
E’ importante sottolineare la differenza tra ortotanasia e eutanasia. La prima permette di morire secondo il principio del piacere ma anche secondo quello di realtà.
Come? Lavorando sul concetto di morte del morente e di chi gli sta vicino, in modo che la morte non sia vissuta come danno ma come un evento che ha di per sé un senso.
Accettare il proprio ‘limite’ permette di: abbandonare la richiesta fantasiosa come quella di “non morire” e di utilizzare in maniera più efficace le risorse per affrontare -con il minor malessere possibile- il periodo che precede la morte.

«Morire secondo il principio di realtà è senza dubbio la modalità migliore per superare i problemi legati all’evento-morte perché, così facendo, non neghiamo l’evento e non ci ostiniamo a costruire difese poco idonee perché legate esclusivamente agli aspetti illusori di immortalità.
Scientificamente sappiamo che esiste un meccanismo fisiologico congenito atto a proteggere i mammiferi dagli effetti dannosi del terrore e del dolore: la produzione di endorfine.
Possiamo paragonare la funzione della ortotanasia a quella delle endorfine. L’ortotanasia favorisce infatti, quando possibile, una morte serena attraverso l’utilizzo di tutte quelle realtà interne ed esterne che concorrono a tal fine» (2).

Concludo con la frase finale del libro di Loretta Rocchetti, pubblicato da Erikson:
«E se il “fine corsa“ fosse una risposta sul “senso“ di tutto il cammino?»

 

Dott.ssa Silvia Mimmotti


NOTE:
(1) Vincenzo Cardarelli, poeta. 
(2) Giovanni C. Zapparoli, medico e psicoanalista.
(3) Branca della medicina legale che riguarda lo studio delle cause di morte e dei fenomeni relativi ad essa.
(4) Frank Ostaseski, insegnante buddista e un leader nel campo delle cure di fine vita
(5) https://ant.it/chi-siamo/codice-etico/
BIBLIOGRAFIA:
- Cardarelli Vincenzo, Alla morte. Mondadori, 1981.
- Kubler-Ross E., La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1982, pp. 50-175.
- Ostaseski Frank, Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte. Oscar Mondadori, 2006.
- Rocchetti Loretta, Negli occhi di chi cura. L’accompagnamento nelle ultime fasi della vita in RSA. Erikson, 2017.
- Sandrin L., Psicologia del malato. Comprendere la sofferenza, accompagnare la speranza. Edizioni  Dehoniane Bologna, 2015.
- Tanneberger S.  International Collaboration and the Importance of Eubiosia. The Oncologist 2015, 20:86-87. doi: 10.1634/theoncologist.2014-0427 originally published online December 9, 2014
- Zapparoli Giovanni C. e Adler Segre Eliana, Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Feltrinelli, 1997.